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Nomadic Emotions and Stories of a Wanderer
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Tutte le strade portano a Samarcanda. Monocromie Tutte le strade portano a Samarcanda.

Monocromie di azzurro e turchese.

Samarcanda il cui nome forse deriva da due innamorati osteggiati o forse è solo la traduzione dal sogdiano di fortezza di pietra. Prima ancora di Samarcanda, Afrosiyab, città ormai estinta, rasa al suolo dai temuti mongoli. Effigi sotto cenere rivenute da quattro ruote pronte a spargere asfalto per accogliere il Summit dei Grandi dell’Est.
Tamerlano e il suo nipote preferito, tanto uguale a lui esteriormente quanto nella tempra, vissuto troppo a breve per succedere allo zio. L’altro nipote, l’astronomo Ulug Bek che per primo ha definito il cielo e le stelle come le consociamo oggi.
Il disegno imperiale glorioso del condottiero uzbeko e la sua maledizione avveratasi all’alba della Seconda Guerra Mondiale, sventurati gli archeologi che hanno osato disturbare il suo eterno riposo.
Delle sue gesta monumentali poco è rimasto. Ciò che sappiamo lo dobbiamo a un vecchio esploratore spagnolo, De Clavijo, l’unico straniero ad essere stato accolto nella corte del grande Tamerlano.
Minareti pendenti su e per quel giaciglio sabbioso su cui si erge la città, non si sa per quale miracolo. La prima moschea più grande dell’Asia Centrale e il mausoleo di Islam Karimov, primo presidente pre e post indipendenza alla guida del paese per 25 anni.
Ebrei, musulmani e cristiani sepolti nello stesso luogo.

Samarcanda, la meta delle mete.
Tutto questo, ma molto altro.

#samarcanda #samarkand #uzbekistan #uzbekistantravel #visituzbekistan
Per raggiungere Samarcanda da Bukhara deviamo vers Per raggiungere Samarcanda da Bukhara deviamo verso Nurata, cittadina tra le montagne considerata sacra per via di una sorgente d’acqua ricca di minerali, tra cui l’oro, alla quale accorrono ancora oggi fiumane di pellegrini per abbeverarsi e approvvigionarsi della purezza. 
Appena usciti da Bukhara, ripercorriamo in auto quella che era la Via della Seta. Resti di cisterne e caravanserragli richiamano l’eco di carovane lunghe anche chilometri che percorrevano quelle strisce di sabbia, orientati grazie alla luce del fuoco sui minareti o torri dei caravanserragli. In alto, il cielo stellato. 
Direzione nord. Spiccano le vette innevate oltre le steppe uzbeke. Qui incontriamo solo greggi al pascolo su colline color fango. Finalmente le steppe anelate dai grandi esploratori di un tempo e chissà da quanti altri millenni prima, che tuttora conversano con noi attraverso incisioni rupestri qui rivenute. 
Le colline si dispiegano orizzontalmente come braccia che allungano le mani e a loro volta ciascuna falange, come a voler abbracciare quel terreno sabbioso teatro di infiniti cammini e quel cielo schermito di nuvole leggere che corrono, troppo veloci per prenderle.
Il respiro si placa, la mente si distende. Liberi. Una parola a cui siamo tanto affezionati eppure altrettanto elitaria. Chiedo a Doston se siano liberi di esprimere i propri pensieri digitalmente.
Mi risponde: 
‘Per voi stranieri o per uzbeki che vivono all’estero è una democrazia, per noi uzbeki è una democrazia solo in teoria’
Siamo tra terre incontaminate ma solo idealmente, il rigore uzbeko è sempre dietro l’angolo.
Raggiungiamo la casa di Ruslan, accolti da sua madre che si appresta a preparare la cena, ravioli ripieni di carne tipici uzbeki, e sua moglie. Le camere sono all’interno della loro casa e sono state costruite da Ruslan durante la pandemia. 
@nurata_ruslan è un ragazzo di 33 anni laureato in francese e inglese, da anni guida trekking e dedito allo sviluppo del turismo a sostegno delle comunità locali. 
Un’aquila sopra di noi. Le vette si tingono di rosa, specchio del tramonto infuocato.
Domani sarà una bella giornata.

Se siete da queste parti, venite a trovare @nurata_ruslan 🇺🇿
Potrei raccontare delle usanze, credenze, miti anc Potrei raccontare delle usanze, credenze, miti ancestrali che permeano le vite di questi volti sin dalla nascita, quando alla madre non è concesso uscire di casa dopo il tramonto durante i primi 40 giorni dal parto, pena l’incontro con i demoni notturni e la trasmissione del male al neonato. Oppure del rituale del tè, onnipresente ad ogni pasto e ora della giornata: si versa nella tazza e si riversa nella teiera per 3 volte prima di essere consumato per favorirne l’infusione. Vi è anche un’età considerevole entro la quale sposarsi: 25/26 per i ragazzi, 22/24 per le ragazze. Il figlio più piccolo continua a vivere con i genitori, quelli più grandi hanno una propria abitazione ma nello stesso complesso.
La sposa si trasferisce a casa della famiglia del marito. Il lenzuolo che va mostrato alla suocera e cognata dopo la prima notte.
Per le donne è difficile andare via dal paese, lo è anche per gli uomini. Quei pochi che riescono sono certamente facoltosi, la famiglia già cosciente del probabile contatto con un’altra cultura.
Tutto questo succede ancora oggi, a non troppe migliaia di km dal nostro continente dove la libertà di scelta è ormai fagocitante. La società uzbeka si fonda sul senso di comunità, ai nostri occhi chiusa, eppure in grado di preservare e tramandare secolari tradizioni. Non potrebbero farne a meno.
Il pane è sacro, non si può calpestare. 
Qui si dice che ‘il pane si mangia con il pane’, accompagnamento di ogni piatto.
Chiedo alla nostra guida (fantastica!) se qui esistono intolleranze, conoscendo già la riposta. Ovviamente no, risponde ridendo, rido anch’io, consapevole di quanto anche queste siano un lusso occidentale, una disabitudine del corpo e della mente alla semplicità. Mi sono chiesta cosa penserebbero questi volti alla vista dei nostri scaffali ridondanti di farine di ogni cereale, prodotti biologici, vegani, ecc. No, non riderebbero di noi. Ci guarderebbero, non comprendendo come mai non riusciamo a mangiare gli ingredienti essenziali.
La nostra libertà di scelta è una fortuna. Eppure, mischiandosi con queste culture, la nostalgia è sempre dietro l’angolo. Nostalgia di ciò che era autentico, e che abbiamo perso per sempre.
Avanziamo verso Bukhara, in treno. Ad accoglierci Avanziamo verso Bukhara, in treno. Ad accoglierci una cittadina addormentata nella quiete invernale. 
Ancora una volta, solo noi in giro e pochi altri stranieri, quasi tutti russi. Quest’inverno i russi che viaggiano in Uzbekistan sono aumentati considerevolmente, ci dicono. Sebbene le ragioni di tale inversione di rotta siano ben immaginabili, non lo sono invece quelle per cui l’Uzbekistan sembra essere in letargo. 
Code infinite ai benzinai, aumento delle tariffe per gli spostamenti (oltre il doppio), ristoranti con menu ridotti, città completamente spente dal tramonto fino all’alba. Il gas è un lusso per gli uzbeki, nonostante il paese ne abbia da vendere. Ahimè dimentica i propri connazionali. Li ricorderà tra poco, con le temperature più piacevoli.
Non manca negli alberghi, guest house, ristoranti e luoghi pubblici, i quali sembrano invece ignorare le conseguenze di un riscaldamento continuo a 29 gradi. 
Ma torniamo a Bukhara. I tratti cambiano, qui sono tagiki da secoli. Le mura di questa cittadina parlano di un passato glorioso.
A differenza di Khiva, il centro storico è ben inglobato nella città e vivo. É un agglomerato di leggende, etnie, culture: dalle devastazioni di Gengis Khan che hanno risparmiato solo il minareto e il mausoleo di Ismail Sabani appena al di fuori della città vecchia, ai colori pastello delle madrase, inusuali nell’architettura islamica e derivanti da artigiani indiani. Dalle dinastie di emiri più o meno favorevoli alla promozione culturale e i loro palazzi sfavillanti, all’occupazione dei bolscevichi che impartirono invece l’ordine di uccidere artisti e letterati. 
Insegne di alloggi e ristoranti pullulano nei vicoli del centro lasciando ben immaginare la presa d’assalto della stagione. Ora siamo gli unici, attiriamo gli occhi stupiti dei passanti, osserviamo la realtà del paese oltre i monumenti.
Entriamo casualmente nell’hammam degli uomini. I vapori e l’umidità del bagno turco si mescolano alle nuvole di fumo del tè che ci viene offerto insieme ai manti (ravioli). 
“L’ospite qui è come un padre e il padre qui è come un santo”
Quel tappeto volante tra India e Iran non poteva che condurmi qui: Uzbekistan, un cerchio che si chiude.
Khiva, finalmente. Una delle grandi mete di ogni v Khiva, finalmente. Una delle grandi mete di ogni viaggio che ripercorre la Via della Seta. Chissà cosa penserebbero i commercianti cinesi, le carovane di nomadi con asini e cammelli, Marco Polo e guerrieri mongoli, se sapessero di essere i responsabili dell’eterno sogno di ogni viaggiatore: ripercorrere i loro passi, indelebili a distanza di oltre un millennio.
Non siamo a bordo di una carovana ma di un treno di fattura ed epoca sovietica che puntualmente percorre i 1000 km tra la capitale e Khiva, città ai margini del deserto.
Quel turchese e ocra a lungo agognati si palesano davanti agli occhi. Tashkent è un ricordo già lontano. Così come il russo, sostituito da un dialetto di influenze turche e turkmene.
Le mura della città vecchia (Ichan Kala), minareti, moschee, madrase. Già, bisogna immaginare Khiva non solo all’epoca caravanista, ma all’apice del suo sviluppo come miglior centro di studi islamici agli inizi del 900. Studenti da ogni dove si riversavano a Khiva per studiare in una delle oltre 60 madrase di cui oggi ammiriamo le facciate maestose, i cortili spumeggianti.
Bisogna prestarsi all’ascolto di ciò che quelle mura di mattoni ricoperti di terra cruda hanno da raccontare: harem per compiacere l’emiro, emiri che si avvicendavano tra zar e Compagnia delle Indie alle prese con il Grande Gioco, l’avvento dell’era fotografica per mano del pioniere Devonov,. 
Ce n’è per tutti: anche per i sognatori di tappeti volanti. Pare infatti che Agrabah si ispiri a questa cittadina, che a me sa tanto della graziosa Yazd in Iran, anch’essa ai limiti del deserto. Quel deserto, la cui luce e aria arrivano all’ora del tramonto, quando il cielo si tinge di rosa e le pareti ocra si trasformano in sabbia. Allora si che è facile vedere quel tappeto volante in cielo e sognare altri mondi.
Viaggiare fuori stagione ci regala il lusso di assistere a una sfilza di cortei matrimoniali musulmani: le neo coppie sfilano al mattino per la città vecchia dopo aver omaggiato Makhmud Pakhlavan. La sera poi i festeggiamenti.
Possiamo inoltre godere di un patrimonio Unesco tutto per noi che tuttavia alle 17 va a dormire. 
Non ci resta che accomodarci su quel tappeto e continuare a sognare.
Il primo giorno a Tashkent è come essere sbattuti Il primo giorno a Tashkent è come essere sbattuti di forza in un frullatore: prima di entrarci sei tutto d’un pezzo. Poi ci sei dentro: ti rivolti e stravolgi, per poi uscirne più fluido di prima, amalgamato.
Prima sosta: il bazar di Chorsu, la città vecchia. Sventrata da un terremoto negli anni ‘60, Tashkent è un frullato di stili architettonici, religioni, etnie. 
Ben identificabili i promotori della ricostruzione urbana la cui eredità 
sopravvive nell’idioma ampiamente parlato pressoché nella capitale (il russo è la seconda lingua ufficiale del paese).

Complice il fuso orario e forse un cielo terso, (tuttavia meno rigido di quello prospettato) fatichiamo ad orientarci spiritualmente in questa città, oggi unica metropoli dell’Asia Centrale. L’inglese non è un’opzione per quanto inverosimile possa sembrare.
Quel corso base di russo approntato casualmente qualche anno prima torna utile solo nella lettura dell’alfabeto ma non è di grande aiuto nel dialogo essenziale del viaggiatore. 
Ci penso. Anche tra le risaie vietnamite o le campagne cambogiane ci fidavamo e affidavamo ai gesti, eppure meno enigmatici di quanto risulti il russo uzbeko.
Ripenso e mi chiedo quanto il passato coloniale non possa forse essere una chiave di lettura di questa difficoltà. In fondo, tutti i paesi in cui finora ho viaggiato hanno un’eredità coloniale europea.
Mentre, per la prima volta, viaggio in un paese con un trascorso sovietico. 
Sgomitiamo per reperire una sim locale acquistabile da stranieri (previo passaporto) e cambiare soldi. Infine, ci lasciamo accompagnare dal flusso della giornata mettendo da parte l’ovvietà dell’inglese e la serenità asiatica.

Prefiguravo l’Uzbekistan come un luogo fascinoso fatto di corti imperiali e arabeggianti, predominanti i colori turchese e violacei.

Ma come tutti i paesi vittime della ‘sindrome dell’Orientalismo’, le loro capitali sono un un ingurgito di modernità che se da un lato (poco male) disorienta noi occidentali dai vividi immaginari ‘esotici’, dall’altro sembra disorientare gli stessi connazionali dalla propria identità storico-culturale, come a voler a tutti i costi tagliare quel cordone ombelicale di cui sono fregiati.
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Ci sono luoghi al confine di altri luoghi. Luoghi Ci sono luoghi al confine di altri luoghi.
Luoghi in cui il tempo rallenta, rallenta così tanto che a un certo punto decide di fermarsi, e tu vorresti solo rimanere incastrato lì, in quell’ingranaggio difettoso causa della sospensione delle lancette.
In questi spazi impercettibili, intangibili,  diventa difficile distinguere tra luce e ombra, tra bene e male, tra reale e surreale. Diventa difficile affermare la propria identità, così come accade nell’ormai risicato lembo di terra macedone, la cui egemonia assoluta appare oggi sfocata tanto quanto i suoi confini.
Mi viene in mente quel ragazzo senza nazione conosciuto a Tallinn in un freddo giorno di gennaio all’alba dei vent’anni sotto i fiocchi cristallizzati di neve. ‘Sono apolide’ disse. S’aprì un mondo a noi, occidentali ostentanti un’appartenenza culturale, sconosciuto.
Sorte simile sembra essere toccata ai greco-macedoni, dai confini talmente labili da essere controllati a debita distanza, seppur con le tavole imbandite con gli stessi cibi, rigorosamente battezzati con idiomi diversi.

C’è odore di incenso e candele spente da chissà quanto tempo in quella chiesetta ai margini del lago di Prespa. Chiusa come fosse uno scrigno di tesori da aprire all’occorrenza, come dovrebbe essere, per non abituarsi mai alle meraviglie.
Troviamo un signore seduto su una panchina in aperta campagna, tra le labbra la sua sigaretta bagnata da anni di nostalgiche boccate. È arrivato da chissà dove. Andrà chissà dove.
Bandiere macedoni campeggiano un po’ ovunque, in un paese che sembra essere disabitato dall’interno, sventrato delle sue glorie e onnipotenza, per far spazio a sguardi abbandonati al tempo che fu.
I fosforescenti raggi gialli stagliati nel cielo rosso continuano a ondulare imperterriti. Tanto definiti i colori quanto sfumati appaiono le identità dei macedoni, greci e/o albanesi.
Siamo a pochi chilometri dal confine greco eppure è come essere nella terra di nessuno.
Nessuno come quel ragazzo che aveva la famiglia in Russia ma per un incomprensibile e imperdonabile errore di sistema era bloccato in Estonia, per lui terra di nessuno. D’altronde, chi si preoccuperà di salvarlo? Nessuno.

#macedonia
Alcuni luoghi sono impressi da sempre nella nostra Alcuni luoghi sono impressi da sempre nella nostra mente come dei miraggi, delle utopie.
Per me Finisterrae è sempre stato uno di quelli. Più che arrivare a Santiago, la mia mente era affascinata dal giungere alla fine del mondo, in questo luogo apparentemente pregno di significato ed energia.
Fine della terra, così gli antichi romani avevano acclamato questo puntino frastagliato sulla rocciosa costa nordica spagnola a limite estremo delle terre conosciute. Oltre, solo mare a perdita d’occhio. 
Succede che sei lì, seduto ai piedi di quel limite, e ti sembra di essere realmente alla fine di tutto, che poi altro non è se non il principio di qualcos’altro.
Sai bene che oltre quella distesa d’acqua intimidatoria c’è un’altra terra, un altro confine, un altro approdo. 
Eppure, sei lì ed è come se non ci fosse null’altro intorno. Un sole che non si sa da dove arrivi e dove va a finire dopo aver attraversato l’orizzonte, lacerato quel tappeto di mare che ti fagocita dall’interno e ti lascia inerme, interdetto.

È la sensazione di infinito che crea vertigini, stordimento, incredulità per la mente che così bene ci fanno allenare affinché racimoli i pensieri in scatole chiuse, senza connessione tra loro.

E poi, quando quel grande tanto atteso è finalmente davanti a noi, lo respingiamo, per paura dell’ignoto, di ciò che c’è oltre quel mare.

Ho osservato quell’infinito per diverse ore quel pomeriggio, combattendo tra la mente pronta a rimanere con i piedi sulla terra e la mia immensa voglia di volare. Nonostante il vento forte, nonostante le fitte nubi che incupivano quel mare già in subbuglio, c’è stato un momento in cui il respiro si è placato, insieme alla mia mente sempre errabonda. In quel momento, anche solo per un istante, ho accolto l’infinito dentro di me. Ho accolto l’inizio e la fine. Ho accolto la paura ma soprattutto l’eterna voglia di volare.

Finisterrae e Muxia.

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Croce e Galizia. #camminodisantiago #finistere #m Croce e Galizia.

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