Raccontare della mia esperienza in India oggi è come raccontare una favola. Cerco di ricostruire mentalmente il percorso che ha condotto il mio sogno indiano a realizzarsi e spesso faccio fatica a credere sia accaduto veramente. Vivendo ormai in Italia da 3 anni, a volte mi domando se sia stato tutto reale. Il mio sogno indiano inizia così.
Quando racconto della mia esperienza in India di due anni e mezzo, ricevo sguardi attoniti e meravigliati.
Le domande sorgono spontanee. “Come mai proprio l’India?”. “Da dove deriva questa passione?”. E poi le domande si affievoliscono e lasciano posto ad affermazioni come “Che coraggio!”; “Deve essere stata dura vivere lì”; “Come hai fatto a resistere!?”.
Le mie risposte forse deludono gli ascoltatori non trovando i riscontri che si aspettano nelle seguenti parole:
“Per me era normale vivere lì”.
“Ho scelto volontariamente di cercare lavoro in India e trasferirmici”.
“Non ho mai avuto alcun problema, anzi mi sono sempre sentita al sicuro”.
A questo punto, vi starete chiedendo se questa mia scelta sia stata determinata da correnti spirituali o volontà caritatevoli. Niente di tutto questo.
E vi dico anche che partire per l’India non era il mio eterno sogno nel cassetto finalmente realizzato. Il sogno di una vita era invece quello di diventare interprete alle Nazioni Unite, determinante nella scelta degli studi universitari.
Così, durante il corso del primo anno di studi in interpretariato a Milano, io e una mia amica facciamo domanda per partire insieme con il progetto Erasmus in Germania l’anno successivo ed affinare il tedesco. In maniera leggera, entrambe convinte che sarebbe rimasto un semplice tentativo. Eppure, a settembre del 2011 ci troviamo su un volo sola andata, lei verso l’Austria, io verso Bonn.
Cosa c’entra la Germania nel mio racconto sull’arrivo in India? Fino a quel momento, a 20 anni, l’India per me era nient’altro che un sostantivo come tanti altri. Non legavo alcun significato al suo suono. Pochi giorni dopo, non l’avrei più pensata in questo modo.
Devo il mio avvicinamento all’India a Bonn e al dormitorio in cui avevo scelto di trascorrere il mio anno di Erasmus. Il mio vicino di camera? Rishikesh, un ragazzo indiano, un anno più grande di me, appena arrivato a Bonn per la sua specialistica in Astrofisica da Pune, città indiana nello stato del Maharashtra (a circa 180 km dalla capitale Mumbai). Città nella quale mi sarei poi trasferita per due anni. No, non è una storia d’amore, né strappalacrime, è una storia di amicizia, fratellanza e uguaglianza.
Durante il corso della nostra vita, non riusciamo ad avere accesso a tutte le realtà. Alcune restano in sordina, altre hanno più risonanza, altre ancora rimangono avvolte in un velo. L’India sarebbe rimasta per me un’entità sconosciuta, se non avessi ricevuto le chiavi d’accesso dal mio vicino di stanza in una piccola cittadina tedesca.
Ad un tratto, ho iniziato a sentire l’India scorrermi dentro. Attribuivo ora un suono a quella parola. Il suono dei braccialetti colorati indossati dalle donne indiane che vedevo attraverso le videochiamate di Rishi (diminutivo di Rishikesh) con la sua famiglia. Il suono del padellino con il chai (il tè indiano) appena pronto in una piccola cucina condivisa mentre fuori il grigio imperversava. “E’ come essere in India durante il periodo dei monsoni” – diceva Rishi – “è bellissimo: beviamo il chai guardando la pioggia, tanto attesa, cadere dal cielo”. E ancora, il suono della musica indiana che ascoltavo nella sua camera e di quei misteriosi versi in sanscrito mi leggeva. Un altro mondo.
Dentro di me si era aperta una voragine che intrepida aspettava di essere riempita con quante più informazioni possibili sul paese, sulle abitudini e tradizioni, sul cibo, sul cinema, sulle divinità e così via. Ero curiosa di conoscere i dettagli di ogni sua parola o gesto. Ad esempio perché, una sera di novembre, avesse posto delle candele accese fuori dalla sua camera. Perché si preparavano determinati cibi per una festività, o ancora, come riuscire a mangiare con le mani.
Avendo trascorso un anno nel dormitorio accanto a lui, avevo ormai un immaginario ben definito sull’India. Iniziai a leggere e documentarmi sempre di più, era come se il mio corpo si fosse traslato lì. Promisi a Rishi che il mio prossimo viaggio sarebbe certamente stato in India e, a sua volta, mi promise che la sua famiglia mi avrebbe dato il benvenuto.
Il sogno indiano “nel cassetto” inizia qui a prendere forma e ad accompagnarmi ogni giorno da lì in avanti. Sogno che diventa realtà solo due anni più tardi, quando, durante il mio Master in Inghilterra, ho la possibilità di svolgere la ricerca tesi all’estero. Sentivo che finalmente l’occasione era arrivata: avrei potuto trascorrere due mesi in India e vivere il paese non come viaggiatrice. All’inizio del mio Master in autunno, avevo già la partenza programmata per maggio. Non stavo più nella pelle. Le preoccupazioni dei miei genitori svanirono ben presto appena sentirono l’entusiasmo nella mia voce.
Nel frattempo, iniziando ad interrogarmi sugli scenari futuri alla fine del mio percorso di studi, inviai la mia candidatura per un’azienda tedesca a Pune. Nel giro di poche settimane, avevo ben due partenze programmate per l’India: la prima a maggio per la mia ricerca tesi a Bangalore; la seconda a settembre per un tirocinio di sei mesi a Pune. Il mio sogno ancora giovane nel cassetto si stava realizzando. La mia famiglia, scettica sulla seconda permanenza così lunga in un paese in cui ancora dovevo metter piede. Io, con la mente, ero già lì.
Il fatidico giorno della partenza arriva. Atterro in India all’alba del 22 maggio 2014.
Appena i portelloni dell’aereo si aprirono, sapevo di essere in India. Il segno inconfondibile dell’arrivo in India è la sensazione dell’aria sulla pelle e la sua intensità nelle narici. Scendendo dall’aereo, quella sensazione si amplifica e ti accompagna mentre cammini tra i corridoi dell’aeroporto verso il controllo dell’immigrazione, determinante per oltrepassare i confini dell’aeroporto.
Potevo avvertire i suoi odori e rumori, il tripudio di colori nei vestiti e nei volti della gente. In quel momento, come poche volte nella vita finora, sapevo di essere esattamente dove avrei voluto. Inspiegabilmente, mi sentivo a casa, a mio agio, come se quell’aria mi avesse donato la realtà davanti agli occhi, immaginata per mesi.
Tuttora, anni dopo quella prima volta, ad ogni atterraggio in India ritrovo quella percezione diversa dell’aria e allora so di essere arrivata.
Dopo un paio di ore di riposo, esco finalmente in strada. Ricordo ancora vivide le prime sensazioni. Ero a Bangalore, una delle città più grandi in India e avanzata dal punto di vista tecnologico.
Il caos rimbombante del traffico nelle orecchie; tuk-tuk che scorrazzano impazziti come se fossero in competizione tra loro, il clacson delle auto e quello più goliardico dei camion che risuona squillante in quell’ordine universale che solo in India ha senso.
In strada, la vita e il suo scorrere.
Vedo uno specchio appeso al ramo di un albero ad altezza uomo e una sediolina di legno all’angolo di una strada: un barbiere pronti a sfoderare l’arte del mestiere a poche rupie.
Donne e bambini seduti sul marciapiede. Osservo e percepisco la forza e l’indissolubilità dei legami, un amore puro e sincero come quello della madre verso i figli che, di fronte al niente, diventa tutto.
Una donna con diverse cesta colorate contenenti fiori sgargianti e vellutati, mi rivolge lo sguardo. Ammiro e mi sorprendo di fronte all’intensità del suo sorriso, quello vero e spontaneo, che non attende spiegazioni né qualcosa in cambio. Quel sorriso ti rialza, risolleva, e dona la speranza di poter credere nella bontà dell’essere umano.
Vedo la semplicità e l’umiltà negli occhi di coloro che incontro per strada. Vedo storie, memorie, sofferenze, nella profondità di quegli occhi.
L’India è come un sogno ad occhi aperti. Lo è anche quando si cammina per le sue strade e si ammira la vita che sgorga da ogni angolo. Forse perché è un immaginario per noi lontano. Una realtà che ti avvolge e coinvolge così tanto da ammaliare tutti i sensi e ti lascia un certo amaro in bocca quando si rientra in Occidente. Forse, in fondo, tutti noi bramiamo un pò quel sogno indiano: il sogno dei colori, il sogno della convivenza in armonia di gente diversa, il sogno della forza della vita anche quando la ruota non gira come ci siamo prefissati, il sogno dell’autenticità nelle piccole cose.
Durante il mio primo soggiorno in India, la visita alla famiglia di Rishi era d’obbligo. Ed è stato come conoscere la mia seconda famiglia. Durante i miei anni in India (mentre lui era in Europa), la sua famiglia è diventata la mia e non mancavo di celebrare ogni festività con loro. Oggi, 9 anni dopo quel fatidico incontro a Bonn, Rishi vive a Roma, parla italiano e viene spesso a trovarmi.
Si dice che ogni persona che incontriamo durante il nostro cammino abbia un significato. Questo legame è simbolo del mio sogno indiano. Diventato realtà.
Attraverso le tue parole si riscopre l’importanza dell’amicizia, quella con la A maiuscola, quella che ci fa scoprire nuovi mondi che possono diventare nostri.. continua a farci viaggiare e riscoprire i valori della vita
Grazie Raffaele, parole come le tue mi danno la forza di continuare a condividere la bellezza. 🙂
Già dall’inizio di questo post sentivo che mi avrebbe toccato il cuore. E non nego, Elisa, che un paio di volte mi sono veuti gli occhi lucidi e mi è venuto il magone.
Quanta bellezza tra le tue parole, grazie.
Grazie tesoro, sai che le tue parole arrivano dritte al cuore.
Bellissima storia quella tra te e l’India. Io credo fortemente nel destino, e nel tuo c’era evidentemente gia’ il legame con questo paese
Oltretutto ho delle sembianze molto simili agli indiani e tutti credono abbia degli antenati/discendenti in India. La vita è incredibile!