Per anni mi son chiesta quale fosse il mio posto nel mondo. Se esistesse, innanzitutto. E come fare a capire quale fosse quello giusto: al mare, in montagna, in una città, in un paese, al sud, al nord.
Questa domanda è stata il filo conduttore dei miei pensieri e movimenti dalla maturità in poi. Nel tempo si è trasformata, si è evoluta anche lei. A volte si è messa in pausa, ferma nel suo angolino: mi osservava guardinga mentre mi lasciava esplorare la sensazione del mettere le radici in un luogo. Ma mi ha sempre accompagnato.
Era sempre lì, pronta a riecheggiare nella mente e nel cuore. È stata lei a spingermi a prendere il timone e ad invertire la rotta della mia vita, diverse volte. Nel momento in cui iniziavo a chiedermi ‘Cosa ci faccio qui?’ (il qui è da intendersi non solo come luogo, ma anche come situazione personale/professionale), capivo che il cambiamento era dietro la porta. Pentita? Mai. Ogni stravolgimento scatenato da quella domanda, a molti forse futile, è stato ed è tuttora un passo verso me stessa, verso la mia essenza.
Se oggi mi chiedi quale sia il mio posto nel mondo, rispondo che ancora lo sto cercando. Ho fatto diversi esperimenti, nei panni e luoghi più disparati, e sono giunta alla conclusione che leggerai nei prossimi paragrafi.
Mi sono sempre sentita fuori luogo nel contesto che ruota attorno alla fatidica parola ‘casa’.
Nel chiacchiericcio tra amiche su argomenti di cui le ragazze ‘normali’ parlerebbero. Nelle conversazioni tra colleghi ben saldi su questa terra mentre io, tra un meeting e l’altro, divagavo con la mente combattuta tra la foschia crepuscolare indiana e la notte mite e stellata del deserto. Ho sempre preferito le pagine di un libro all’ennesima serata su un’umida panchina di paese, le sveglie all’alba alle serate vagabonde, la ricerca di posti nuovi a casa rispetto alla solita spiaggia. Dove gli altri vedevano una distesa d’acqua blu, io ci vedevo un orizzonte infinito, oltre il quale immaginavo altri mondi, altri volti, altri specchi e pezzi di me.
Buffo è che la parola casa derivi in prima battuta dal sanscrito ska con cui si indicava una copertura o capanna. Come potevano i nostri antenati altrimenti esprimere il luogo fisico del rifugio, riparo. Nella ricerca di tale necessità, definita ska, non immaginavano di certo la continua evoluzione dell’edilizia urbana che sfoggia case da copertina per soddisfare una delle primarie e basilari esigenze dell’essere umano: ripararsi.
La mia rivoluzione interiore è iniziata da una semplice domanda, che continuo a pormi tutti i giorni per assicurarmi di essere sul giusto cammino: qual è il mio posto nel mondo, la mia casa? La conseguente domanda è: perché non riesco ad essere felice completamente a casa?
I primi anni in cui ho iniziato a viaggiare e vivere in diverse città e continenti, continuavo a chiedermi il perché fossi sempre in cerca di un altro luogo, di un altro spazio, di un altro tempo. Quel senso di irrequietezza continua a sopraffarmi nei momenti più inaspettati: in fila al supermercato, la mattina appena sveglia nello stesso letto, nelle azioni abitudinarie che tanto si insidiano dentro di noi da risucchiarci anche quel minimo accenno di follia. Mi sono ritrovata così nella trappola, per me mortale, dell’essere tutti i giorni nello stesso luogo. Non parlo della pandemia che ci ha costretti inevitabilmente a casa. Parlo della vita nella quale ero inciampata fino all’inverno 2019, quando ho finalmente deciso di dare una svolta. L’ennesima.
In questo articolo racconto perché ho deciso di Ripartire dall’India.
Sono riuscita, a fatica, a risvegliarmi dall’intorpidimento della routine, di ciò che è giusto perché deve essere così rispetto a ciò che è giusto per per avvicinarmi alla mia essenza.
C’è chi vive lasciando che la vita stessa gli scorra davanti senza porsi tante domande sul proprio percorso e sulle probabili alternative. C’è chi di domande se ne pone sin troppo. Tuttavia, cerca di toccare con mano l’essenza del proprio vissuto e di sé per modellare il futuro sulla base del proprio benessere.
Chi si pone queste domande percepisce se stesso in ogni luogo e ne coglie meticolosamente le differenze. É doveroso specificare la duplice etimologia del sostantivo luogo che, oltre ad indicare un posto specifico, indica anche lo spazio che un corpo occupa o può occupare.
Come mai in alcuni luoghi mi sento pienamente me stessa, mentre arranco a trovare il mio angolino a casa? In tali momenti sono pervasa da una sensazione di disagio. Un pò come quando fatichiamo a trovare la posizione comoda per addormentarci nelle notti insonni e vorremmo solo che fosse già mattino.
Mi sono ritrovata così a vivere una quotidianità interminabile di giornate scandite allo stesso modo e tramonti guardati su uno schermo attraverso gli occhi degli altri. È questo dunque l’agognato raggiungimento del mondo adulto?
Mi sono rifiutata di farlo diventare il mio. Nel frattempo, quella domanda mi incalzava a volgere lo sguardo alle giornate di caos asiatiche, ai tramonti iraniani sui tetti di Yazd accompagnati dall’onirico canto del muezzin trasportato dall’aria calda. Al sapore dei datteri e del tè in un punto imprecisato sulle mappe del deserto omanita e al perdere e poi ritrovare la giusta direzione tra le campagne vietnamite. Sono questi i miei posti nel mondo.
Ho finalmente dato un nome al moto irrequieto di sensazioni che mi accompagnano costantemente e mi conducono irrimediabilmente in un Altrove felice. Sono i ‘pensieri incorporati’, così definiti dall’antropologa Michelle Rosaldo. Si tratta di un estratto di emozioni in cui il corpo, l’ambiente e l’individuo si riconoscono, in quanto esperite in prima persona. Per me hanno la forma di Oriente: di strade indiane polverose dove il proprio spazio si guadagna sgomitando nella torma; di inviti casuali a matrimoni cambogiani celebrati su sterrati rosso fuoco e di lunghi viaggi in bus sgangherati sulle strade più alte del mondo i cui pezzi di metallo erano l’unica barriera salda tra me e il vuoto.
Sono la somma di corse in scooter colta di sorpresa sotto il monsone scrosciante; di piedi nei granelli infinitesimale del deserto a notte fonda e la luna appesa nell’immenso cielo nero; di cascate cingalesi ripercorse a piedi nudi e dell’estasi nei tuffi nelle verdi acque rarefatte di un fiordo albanese. Sono la somma di un autostop sul confine cambogiano; del rumore di una marmitta cigolante in sella a una motoretta nelle risaie; di un treno che mi conduce gioiosa ai confini della Thailandia tra sedute di ferro ed aria irrespirabile e dell’emozione travolgente di varcare i confini di uno Stato a piedi.
Sono spiragli di ricordi a cui l’anima si aggrappa per tornare nei luoghi in cui ha vissuto momenti di ‘intrascurabile’ armonia.
Sono i miei posti nel mondo.
Non ci credo, entro nel tuo blog e leggo un post dal titolo quasi identico a uno che sto scrivendo io… andiamo in due direzioni diverse, ma già lo sai!
Siamo sincronizzate 🙂 Non avevo dubbi!