Avevo sentito parlare del ritiro di meditazione di 10 giorni in silenzio in un centro Vipassana e mi aveva tanto affascinato. Erano le mie ultime due settimane in India prima del rientro in Italia e avevo deciso di dedicarle a questa esperienza in un centro al nord dell’India.
Mi imbarco sul volo del mattino Pune – Delhi da dove avrei intrapreso il viaggio in bus notturno per raggiungere il distretto di Dharmsala, nello stato dell’Himachal Pradesh. Poco meno di 500 km spalmati su circa 13 ore di viaggio in bus.
L’email di accettazione al ritiro indicava l’orario di ingresso alle 13. Arrivo nella cittadina di Mc Leod Ganj (nonché residenza del Dalai Lama) alle prime luci del mattino e attendo con trepidazione l’ora di pranzo. Provo un misto di paura al pensiero di non poter assolutamente parlare per dieci giorni e non poter usare dispositivi elettronici. Tuttavia, avverto anche una sensazione quasi liberatoria, ho l’opportunità di mettere in pausa il mondo per dieci giorni e finalmente avviare una relazione completamente sola con me stessa. Un dono.
Avere la possibilità di mettere la propria vita letteralmente in pausa da tutti gli impegni non è scontato. Inoltre, non sempre nella vita si ha la forza e il coraggio di mettersi a nudo davanti a se stessi. Anzi, si aspetta sempre che un agente esterno venga in soccorso a distrarci piuttosto che affrontare la verità e accettare la più importante sfida tra tutte: guardarsi dentro.
Un tuk-tuk mi accompagna al centro Vipassana, situato nel vicino paese di Dharamkot dove incontro i miei futuri compagni di avventura. Siamo contenti e gioiosi di conoscerci e ci scambiamo le esperienze reciproche. Siamo circa 100 persone approdate lì e accomunate dallo stesso obiettivo e speranza. Donne e uomini, di diversa età, da tutto il mondo. Sappiamo che quelle sono le ultime parole condivise prima che il silenzio ci travolga, come un’onda anomala nelle vite di ciascuno. Ci sentiamo pronti.
Alle 13 iniziano le registrazioni. Consegnato il modulo con l’anagrafica, è il momento di lasciare tutti gli oggetti personali: cellulare, portatile, passaporto, libri, penne, portafogli, e qualsiasi altro dispositivo di facile distrazione. All’interno del centro si entra con l’essenziale necessario per vivere dieci giorni. Il nostro compagno sarà il silenzio.
Veniamo assegnati alle camere; donne e uomini rigorosamente divisi in due sezioni separate, l’unico luogo di condivisione è la sala di meditazione. La mia compagna è una ragazza indiana di Delhi con la quale si crea subito una spontanea sintonia. Tutti i movimenti in camera per i quali normalmente ci si scambierebbe una frase, una domanda, all’improvviso avvengono fluidamente e nessuna parola è necessaria. Il silenzio ha messo ordine da sé.
Nel pomeriggio ci viene spiegato il regolamento e dalle ore venti in poi il sipario del silenzio sarebbe calato fino al pomeriggio di dieci giorni dopo. Sembrava una proiezione temporale lontana anni luce. Noi, sempre abituati alla connessione quasi totalizzante, al non dover mai perdersi un evento, all’essere sempre pronti a spendere una parola o un giudizio su qualsiasi argomento o persona. Come sarebbe stato essere spenti? E se fosse successo qualcosa in Italia e io non fossi stata raggiungibile?
I ritmi del ritiro sono serrati. La campana suona alle 4 del mattino e si inizia con la prima meditazione all’alba di circa un paio d’ore prima di colazione.
L’unico pensiero che non mi era balenato inizia invece ora ad attanagliare la mente. È possibile stare seduti nella stessa posizione senza provare alcun dolore per più di 5 minuti?
Non avevo mai dato voce all’eventuale problema della posizione fisica, anzi ero preoccupata dalla mancanza della parola o del cellulare. Preoccupazioni che passano sorprendentemente in secondo piano, a molti di noi, come poi abbiamo modo di confrontarci alla fine del ritiro.
Faccio un passo indietro per raccontarvi in breve il contesto ed insegnamento della meditazione Vipassana. Si tratta di una pratica buddhista praticata in India nell’antichità ma poi abbandonata completamente nel paese. Fu il maestro S. N. Goenka, birmano ma con origini indiane, a riportarla in auge in India dagli anni ‘70.
La scuola di meditazione Vipassana del maestro Goenka si basa sulla disciplina e si pone l’obiettivo di scoprire la vera natura del sé, lontano da qualsiasi distrazione, interiore o esteriore. Perciò la rinuncia di qualsiasi oggetto, anche una semplice penna e foglio sono elementi di distrazione per la mente che tentano immancabilmente di sviarla dall’essere concentrata su se stessa. Così come gli ambienti esterni: non è raccomandato svolgere la meditazione all’aperto in quanto qualsiasi rumore gioca a svantaggio della mente. Le camere e il centro di ritiro sono molto basiche e non decorose per non consentire alcuna distrazione.
Di conseguenza, la tecnica meditativa lascia poco spazio all’immaginazione. Nessun mantra o parolina magica da ripetere ad ogni inspirazione ed espirazione. Il rischio di distrazione deve essere ridotto quasi a zero. Ci concentriamo invece ad osservare i movimenti del respiro con lo sguardo rivolto all’interno, con pazienza e determinazione. Qualcuno decide di terminare il suo percorso dopo i primi giorni.
Avevo deciso di provarci, fino alla fine. L’unico fattore di resistenza è la sopportazione del dolore fisico. Anche in questo caso, la mente ha una forza potente. Nulla è permanente, ma tutto si evolve e trasforma, così anche il dolore. Quando il dolore sopraggiunge improvviso, non deve essere contrastato, bensì osservato quasi con compiacimento. Deve sorgere in noi la consapevolezza che prima o poi passerà, non può durare in eterno. Sono solo parole, dirai, ed invece funziona. È un allenamento duro ma porta i suoi frutti e aiuta a cambiare la prospettiva sulla percezione della realtà.
Dopo la prima colazione, la giornata è un susseguirsi di cicli di meditazione fino alle nove di sera. Le uniche interruzioni sono il pranzo e un’ora di pausa durante la quale possiamo camminare nel giardino del centro. Siamo ai piedi della catena dell’Himalaya, circondati da montagne.
L’altra interruzione, attesa da tutti, è l’ascolto dell’insegnamento del maestro Goenka ogni pomeriggio. Goenka viene in soccorso ai meditatori trasformando in parole il magma di emozioni che il Vipassana scatena, giorno dopo giorno. Dall’esplosione di dolore del primo giorno che non consente al corpo disabituato di stare nella stessa posizione per più di qualche minuto, alla difficoltà della mente di essere qui e ora.
Provate anche voi, ora. Chiudete gli occhi (molto probabilmente le vostre palpebre tremeranno) e provate ad annullare ogni pensiero, di qualsiasi natura. Provate a non farvi distrarre da ogni minimo rumore ma a focalizzare l’attenzione sul presente. Dopo qualche secondo vedrete come la mente inizia a divagare e “appigliarsi” ad ogni possibile pretesto.
Il fulcro sul quale fa leva la meditazione Vipassana è questo: la quasi impossibilità dell’uomo moderno di essere centrato verso se stesso e non all’esterno.
I primi giorni sono una continua lotta tra corpo e mente. Il corpo ha bisogno di abituarsi alle circa 14 ore in posizione seduta senza appoggio. La mente, dal canto suo, deve concentrarsi unicamente sull’introduzione di aria durante l’inspirazione e l’emissione di aria durante l’espirazione. Il primo respiro, ok. Il secondo, mmm la mente inizia già ad annoiarsi. Al terzo respiro, è pronta per il volo pindarico. È una catena, si divaga verso un pensiero che a sua volta conduce ad un altro pensiero e così via. Ad un certo punto, il conscio bussa alla porta ed è come redimersi da un sogno. In quel momento, provi con tutte le tue forze a riprendere le redini della tua mente e riportarla a casa.
Appartieni a me, devi fare come dico io, perché non riesci a obbedirmi? Tante le domande. Perché mi sono andata a cercare questa sorta di autopunizione?
Solo verso il quinto giorno si riesce a prolungare il mantenimento della stessa posizione per un tempo che può aggiudicarsi almeno la sufficienza come principiante. Allo stesso modo, il campo di osservazione interiore si restringe sempre di più fino a giungere (agli ultimi giorni) all’osservazione dell’aria nel tratto tra la narice e l’inizio del labbro superiore. La mente, sempre più allenata, ha meno vie di fuga e deve reggere il confronto con se stessa. I sogni durante il ritiro sono molto più intensi, dovuto all’aumentata stimolazione neurologica durante la giornata.
Raccontando della mia esperienza, ho riscontrato molte curiosità, che forse si manifestano anche in te, alle quali proverò a rispondere.
A cosa si pensa tutto il giorno? Si rimette in discussione la propria vita?
Mi sono avventurata nell’esperienza Vipassana a 24 anni perciò non avevo questo tipo di approccio bensì era la curiosità di provare e testare il silenzio a far leva. Mi piacerebbe rifarlo e sicuramente lo affronterei con una maturità diversa. I pensieri che scorrono in quei giorni sono i più disparati, dai più banali a questioni più importanti su se stessi.
Com’è stato ritornare a parlare?
Strano. Il mattino del decimo giorno, il silenzio si interrompe a metà mattinata. Abbiamo notato come nel pomeriggio non fossimo più in grado di meditare in quanto la mente era nuovamente “riempita” con informazioni, parole, domande. Abbiamo percepito diversamente anche il momento del pranzo. Mangiare è un’azione che in silenzio ciascuno di noi aveva vissuto in maniera consapevole con se stesso, un filo conduttore con la meditazione. Con la libertà di parola in bocca e la foga di dire qualcosa, i bocconi vengono abbandonati nel piatto ed è come perdersi, di nuovo. Ho fatto fatica ad uscire la sera per qualche settimana perché avvertivo ogni parola o l’atto stesso del bere un drink come un diversivo, un superfluo nella mia vita, non appaganti allo stesso modo.
Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
Il dono del silenzio. Sono una persona che cerca e ama molto il proprio spazio e la propria compagnia. Mi ritrovo ad andare in riva al mare e godere del silenzio. Il silenzio, quello attivo e consapevole, è un regalo meraviglioso che abbiamo ma suscita anche molta paura. Non è facile spogliarsi e mostrarsi per ciò che si è a se stessi, ma credo che tutti dovremmo farlo, almeno una volta nella vita. Inoltre, dovremmo capire che parlare non è l’unico mezzo di comunicazione con l’altro. Inoltre essere consapevoli dell’importanza e del peso delle parole, purtroppo oggi spesso interpretate alla leggera.
Perché decidere di trascorrere dieci giorni in totale silenzio?
Quando si inizia a porre la base dell’equilibrio tra corpo e mente, si inizia a viaggiare realmente dentro di sé. Impariamo a conoscere la disciplina del dolore e come iniziare a domarla. Non solo, comprendiamo le limitazioni della nostra mente e le sue infinite possibilità. Ci aiuta inoltre a realizzare la complessità del contatto interiore essendo costantemente bombardati da parole e iperconnessioni quotidianamente. Il percorso è lungo e va ben oltre i dieci giorni, tuttavia è un assaggio di ciò che potremmo essere.
Concludo condividendo un piccolo aneddoto che porto sempre con me e mi fa sorridere.
Uno degli ultimi pomeriggi, eravamo in procinto di iniziare la meditazione, chiudiamo gli occhi e avvertiamo un forte senso di giramento. Ho subito pensato: “Wow, quanto è forte questa meditazione!”. Riapro gli occhi, istintivamente guardo il lampadario che oscilla, mentre qualcuno inizia ad avvertire in maniera allarmante “Earthquake!” (Terremoto!). Per la prima ed ultima volta, un brusio concitato di voci sovrasta la sala, chiediamo di uscire fuori.
Siamo in una costruzione di legno su uno sperone roccioso ai piedi dell’Himalaya, zona non di rado colpita da terremoti. La mia mente inizia a costruire gli scenari più imprevedibili sull’eventualità della notizia in Italia e l’impossibilità di contattare la mia famiglia. In quel preciso istante, il maestro-guida in sala afferma la sua presenza e imposizione con le seguenti parole: “Continuate a meditare”. Null’altro. Molti di noi sono spaventati, increduli, in cerca di informazioni. Qualcuno decide di rimanere all’aperto. Era solo una scossa, comune per la zona, ma disarmante per altri.
La risposta alla domanda sul perché abbia deciso di sottoporre me stessa a questa dura esperienza risuona univoca: far bene a me stessa. Il sorriso sul volto al termine del ritiro parla da sé.
Per approfondimenti, consiglio il libro del Maestro Goenka:
Ho letto il tuo racconto tutto d’un fiato e sono incantata. Io amo profondamente il silenzio e raramente sono riuscita a sperimentarlo! Pratico la meditazione piuttosto con difficoltà a casa mentre, ad un ritiro a cui ero stata, tutto il contesto mi aveva certamente aiutato ma caspita arrivare ad un’ora mi sembrava già tanto! Il momento del silenzio invece restava il mio preferito, certo non riesco ad immaginare come posa essere per 10 giorni. Sicuramente un’esperienza molto profonda. Quando son tornata alla normalità sono stata male, ho avuto forti sbalzi emotivi perché mi sembrava di non avere più quella pace e sicurezza intorno. In ogni caso sono esperienze che ti insegnano tanto, spero di ripetere qualcosa di simile, magari proprio in India
Cara Chloe, grazie del tuo commento e di aver condiviso la tua esperienza. Il silenzio è una pratica difficile da praticare e richiede tanta pazienza. Sicuramente è complesso il passo iniziale di voler affrontare un ritiro del genere e tutti i dubbi sono assolutamente normali. Ma ti garantisco che ne vale la pena, e se già hai questo input è un buon inizio! Prima del ritiro, non avevo alcuna pratica nemmeno io, l’ho fatto senza pensarci troppo! Ci sono poi diversi tipi di ritiri che affrontano il silenzio in maniera meno “radicale”(ti consiglio di guardare anche il Tushita Meditation Centre a Dharamsala). Per qualsiasi altra info sull’India, sono qui 🙂