Le pagine del libro Tre Tazze di Tè mi avevano avvertita. È impossibile restare indifferenti di fronte ai sorrisi e agli umili volti dell’etnia dei Balti come a Turtuk, l’ultimo villaggio indiano. Alcuni paesaggi che leggiamo nei libri o vediamo nei film sembrano appartenere ad un altro pianeta. Non riusciamo a credere come sia possibile che nello stesso spazio di mondo alcune popolazioni vivano in condizioni estreme, senza accesso alle comodità che ormai fanno parte di noi e senza le quali non riusciremmo a vivere. L’altro, il diverso, è sempre così lontano tanto da sembrare irreale.
Una strada incastonata tra le cime più alte del mondo. Pendii aridi, grigiastri, che raccontano di vite ardue e spigolose come le rughe scavate sui volti, conflitti rocamboleschi e identità in bilico. Sospese. Come quel ponte, unico collegamento del villaggio con l’India, di cui ne è figlia dal 1971.
I confini sono luoghi che offrono uno specchio di osservazione e riflessione sull’umanità.
Ci troviamo in Ladakh, un territorio con statuto speciale nella più ampia regione del Jammu e Kashmir, attore principale della sanguinosa disputa territoriale tra India, Pakistan e Cina sin dall’Indipendenza indiana nel 1947.
Un territorio vergine nelle sue montagne rocciose, aquile che volano nel cielo azzurro e strade quasi inesistenti.
Grazie all’esperta guida di un locale, ci inerpichiamo su stradine ciottolose a senso unico con quella fedeltà cieca con la quale in viaggio istintivamente affidiamo la nostra vita nelle mani di un altro, mentre a casa fatichiamo a guardare il nostro vicino.
Superiamo il passo più alto del mondo, Khardung La, a quota 5.602 metri. Sostiamo per non oltre 15 minuti attenendoci ai ripetuti avvertimenti dei cartelloni verdi e gialli tipici del Ladakh che esortano a non prolungare la sosta per salvaguardare i polmoni.
Poco prima di arrivare al villaggio, intravediamo una timida presenza umana dopo centinaia di chilometri. Sul ciglio della strada, uomini e bambini ci guardano attraverso i finestrini. I loro occhi fanno fatica a mettere a fuoco tratti somatici diversi dai propri. Siamo alieni venuti da un altro mondo. In un villaggio che dispone di elettricità solo per quattro ore ore al giorno la sera, non connesso con il mondo, si fa fatica ad avere una percezione dell’esistenza del diverso. Il villaggio infatti ha iniziato ad accogliere i primi stranieri curiosi ed impavidi solo nel 2010.
Siamo nella parte estrema nord-occidentale dell’India, ai confini di una provincia, di un territorio, di una regione, di uno stato. Uno dei confini geopolitici più dibattuti nella storia.
Turtuk, ultimo villaggio indiano dimenticato tra le montagne del Karakoram. Il nostro vicino di casa è il Pakistan, a circa 7 km.
Come capovolgere una clessidra e vedere i granelli di sabbia che lentamente cadono per la forza di gravità, veniamo risucchiati nel tempo ed appaiono immagini di antichi mercanti che si fermano nel villaggio con le loro carovane percorrendo la Via della Seta. Turtuk vanta una storia idilliaca lunga secoli fino al 1947 quando il Pakistan si accaparra il piccolo villaggio all’alba dell’indipendenza dell’India per poi cederlo nuovamente al subcontinente nel 1971.
Fluttua così tra quelle montagne l’identità perduta dei Balti, come la rilevanza di un confine geografico.
Occhi a mandorla ci sorridono in segno di gratitudine per esserci spinti fin lì. Un ponte di legno, confine invalicabile dove parcheggiare i propri mezzi d trasporto, invita viandanti e abitanti ad accedere al villaggio a piedi. Ricorderò sempre l’attraversamento di quel ponte come una transizione verso una nuova vita, diversa da tutto ciò a cui ero abituata, anche se per un solo giorno.
La sinfonia del ruscello limpido e iridescente che scorre sotto il ponte accompagna il passaggio verso quel mondo ancora intatto e autentico, nel quale si ha quasi paura ad intromettersi.
Mentre attraversiamo il ponte, incontriamo due bambine, forse in età preadolescenziale, nella loro camminata pomeridiana nel parco a cielo aperto himalayano. Parlottano tra loro, le guance si arrossiscono quando ci intravedono. Indossano un velo sul capo, sono musulmane.
Ci sediamo in un piccolo tea stall (chioschetto indiano che vende tè) per ristorarci dal lungo viaggio in macchina di circa 10 ore da Leh a Turtuk. Il primo sorso di tè al limone, zenzero e menta piperita ha tutto un altro sapore.
Un sapore di immaginazione divenuta realtà e di testimonianza di un’esistenza ancora pristina dove i ritmi del tempo sono scanditi dai raggi del sole e dalle attività quotidiane.
Troviamo ospitalità in una piccola casetta di legno ai margini del ponte. Ingombranti coperte di lana, pesanti da smuovere con un solo braccio lasciano presagire il freddo pungente delle notti invernali. Sono i primi di settembre e l’aria è frizzante.
Il mio cellulare è ormai scarico. Cerco il caricabatterie nello zaino e, con un gesto inconsapevole ormai interiorizzato, lo inserisco prontamente nella presa elettrica. A Turtuk l’elettricità non è un bene utilizzabile con libero arbitrio, ma richiede saggia sapienza durante la sua breve apparizione di due ore al giorno. Rimetto il cellulare nello zaino. In fondo, perché dovrei averne bisogno in un posto del genere?
Sbucando fuori dal nostro piccolo alloggio, ci ritroviamo davanti ad una distesa di fiori di campo bianchi in uno sconfinato prato verde.
Bambini giocano spensierati: si rincorrono, rotolano nel prato, nessuna madre corre loro dietro con rimproveri per l’essersi sporcati. Non hanno bisogno di altro se non di quel prato.
È l’ora del tramonto e ci intrufoliamo tra le viuzze del villaggio. Alberi di albicocco regnano sovrani nel villaggio, si dice infatti che le albicocche di Turtuk siano le migliori. Le donne sono intente a lavare le poche stoviglie di acciaio sotto l’acqua gelida del ruscello che scorre nelle falde sotterranee. I tetti in lamiera delle modeste abitazioni in pietra sono affollati da cibi lasciati ad essiccare in preparazione al duro e rigido inverno ormai alle porte. Una corda di legno appesa ad un albero diventa l’altalena preferita del villaggio.
Cala la sera, senza luci. Ne approfittiamo per affacciarci nuovamente dalla porta, pronti ad assistere allo spettacolo della notte, solo per noi: la Via Lattea illumina orgogliosamente il nero della notte trapuntato di stelle. In un punto infinitesimale al confine tra India e Pakistan, anche Turtuk è parte del nostro stesso universo.
Come ho già raccontato nell’articolo sul mio primo impatto con l’India, la vita scorre lenta, come una scenografia di qualche secolo fa. Eppure siamo nel 2015 e forse, qui, lo scorrere del tempo ha un altro significato rispetto al nostro fatto di scadenze ed appuntamenti. A Turtuk, basta aprire la porta della propria casa e ritrovarsi davanti la felicità fatta di un prato verde e un cielo stellato.
Dopo la visita a Turtuk ho iniziato a chiedermi il perché di tante necessità imposte come tali, e senza le quali saremmo apparentemente indietro rispetto ad un altro. Ho ricevuto la risposta sotto l’acqua gelida della doccia del mattino successivo: Turtuk è uno degli ultimi baluardi della resilienza come valore congenito nell’uomo a cui la nostra società sembra essersi arresa grazie alle moderne comodità.
Poche volte nella vita ho provato la stessa sensazione di quelle 24 ore trascorse a Turtuk e che sempre più riconosco nella parola Felicità. Felicità nell’essere partecipe allo scorrere della vita in un remoto angolo della terra, dove si fa ancora fede allo stretto necessario. Ai prati verdi e ai bambini che giocano spensierati. E no, non è solo la trama di un bel film.
Alcuni luoghi hanno la forza di insegnare, anche se vissuti per breve tempo. Non mi arrabbio più come prima se non riesco a caricare il telefono nell’istante in cui si è spento.
Nell’ultimo villaggio indiano, possiamo posare la nostra clessidra prima di quel ponte e, al nostro ritorno, troveremo i granelli di sabbia nella stessa posizione in cui li abbiamo lasciati all’arrivo. Turtuk ha saputo congelare il tempo.
Per scoprire un itinerario fai da te in Ladakh, leggi il mio articolo qui.