Uno dei più grandi bagagli ereditati dall’India è la mia esperienza in casa con una famiglia indiana a Pune. Vivere in una famiglia indiana mi ha salvaguardato da una conoscenza superficiale del Paese attraverso gli occhi privilegiati di un occidentale espatriato. Anzi, mi ha permesso di conoscere persone straordinarie e condividere la quotidianità fatta di drammi e piccole conquiste come fossi parte di un nucleo familiare.
Leggi insieme a me la storia di Chetna, la mia ospitante, ne vale la pena.
Prima di partire per l’India, immaginavo tutt’altro rispetto ai palazzi di vetro, ristoranti di lusso e locali di tendenza. Approcciandomi al Paese per la prima volta, la realtà mondana e le sue conseguenze sociali di apparenza ed ostentazione risultavano concetti molto lontani, da cui speravo di tenermi alla larga.
Arrivando in una città internazionale come Pune, ho notato sin da subito quanto sarebbe stato facile essere fagocitati dal mondo degli espatriati. Anzi, si rischia di rimanere quasi esclusivamente segregati nella bolla della vita mondana.
Devo ammettere la mia delusione iniziale nello scoprire la realtà delle grandi città indiane tanto frenetica ed esuberante quanto quella di una metropoli occidentale. Tuttavia, oggi non ci si può esimere dal raccontare l’India tralasciando la sua anima progressista e moderna.
L’India ora è anche questo, è un binomio delicato tra tradizione ed evoluzione, tra antico e nuovo, che inizialmente lascia spiazzati e confusi. Ho sempre cercato di non precludermi nessuna delle due sfere. Mi sono integrata e ho convissuto con entrambe, curiosa di comprendere i tessuti capillari di una realtà per me fino ad allora sconosciuta come quella degli espatriati in India. Se sei curioso di scoprire questo mondo, non perdere il mio articolo sulla vita degli espatriati a Pune.
Perché ho scelto di vivere in una famiglia indiana
Appena arrivata a Pune, cerco una sistemazione non dispendiosa per i sei mesi successivi, durata del mio tirocinio. Leggo l’annuncio di una PG (paying guest), tipologia di alloggio diffuso in India dove il proprietario accoglie l’affittuario in casa propria concedendogli l’uso di una porzione della casa. È una soluzione che consente di risparmiare rispetto all’affitto completo di un appartamento.
Il costo mensile per la mia camera è di 7000 rupie al mese, ovvero 85 euro circa. Questa somma include la camera, il chai (il tè indiano con spezie, zucchero e latte) al mattino e, come avrei scoperto dopo poco, la familiarità di una casa lontano dalla mia e di una donna forte e meravigliosa come Chetna.
La casa si trova a Koregaon Park, il quartiere di Pune più ambito tra gli stranieri, gli indiani che hanno vissuto il processo di commistione tra culture, e tra i seguaci di Osho, il cui ashram si trova a pochi paraggi. Entro nella society (termine con cui vengono definiti i condomini indiani organizzati come una sorta di cooperativa in cui i proprietari costituiscono autonomamente una commissione che si occupa delle faccende amministrative e di mantenimento) che dall’esterno appare come un edificio fatiscente ma pieno di vita.
Mi accoglie Chetna, una donna di circa 40 anni, e il sorriso smagliante della madre, 90 anni circa e in ottima salute. Da lì in poi, quel sorriso avrebbe riempito ogni mia giornata prima di chiudere la porta per andare al lavoro. Una sensazione di benessere mi avvolge, piccole percezioni che ho imparato a sviluppare viaggiando e che mi hanno sempre aiutata a capire da quali situazioni tenermi alla larga. Non c’è tempo per i convenevoli, in India non si bada troppo alla forma. Ti capiterà di notare come il tempo dedicato ai saluti tra gli indiani è praticamente inesistente paragonato al nostro. Non è maleducazione, ma la forma mentis di un popolo che deve accaparrarsi la sopravvivenza.
La casa è piccola, accogliente, essenziale. Come la cameretta che sarebbe divenuta il mio nido per i prossimi mesi. Un letto, un armadio e un ventilatore al soffitto, indispensabile nelle notti caldi e afose dell’estate indiana per mitigare la temperatura e tenere lontano quanto più possibile le voraci zanzare dal corpo. Alla parete un quadro di Osho che mi osserva: non conosco granché del personaggio prima di arrivare a Pune.
Entrambe soddisfatte della futura convivenza, sono pronta a trasferirmi a casa di Chetna nel fine settimana.
Rispetto ad altre paying guests, non ci sono regole severe in casa in termini di orari. La pulizia è in mano a una giovane ragazza, ayah, che due volte a settimana lava i miei indumenti a mano. Dimenticavo, l’abitudine di lavare i panni a mani in India è ancora molto diffusa, retaggio di antichi mestieri ancora imperniati nel substrato sociale più tradizionale. Allo stesso modo, le donne lavano il pavimento piegandosi in terra con la schiena inarcata e uno straccio bagnato tra le mani.
Uno dei ricordi più impressi nella mente è la doccia. Per sei mesi ho usato un secchio che riempivo con l’acqua necessaria e uno più piccolo con il quale versavo quell’acqua centellinata sul corpo per risciacquarmi dopo essermi insaponata.
Le parole furibonde di mio padre che rimproveravano le lunghe docce non potevano che risuonarmi nella mente. Lo spreco di acqua è incalcolabile e l’ho compreso solo dopo aver testato quanta acqua sia poi necessaria per una doccia. La doccia è per me ormai un’azione fugace, memore delle mie mattine a Pune.
Le prime settimane trascorrono in un clima di rispetto reciproco dei propri spazi. Il rapporto tra me e Chetna si rafforza nel corso dei mesi quando ormai attendo con ansia l’appuntamento del chai delle sedici, nei pomeriggi in cui non lavoro.
Rimane per me il chai più buono del mondo, così come la sua upma, piatto tradizionalmente consumato a colazione preparato con semolino, spezie e anacardi. Dopo aver dichiarato il mio debole per la sua upma, Chetna spesso lo prepara a colazione. La sera andavo a dormire già con l’acquolina in bocca.
La storia di Chetna
Chetna porta sul suo corpo i segni di un amore violento e sopraffattore, di cui scoprirò la triste storia quando la confidenza è ormai forte tra noi. Un amore giovanile l’aveva risucchiata in un vortice di crudeltà con un uomo che giustificava il picchiare con la parola amore, rendendola cieca da un occhio. Segno indelebile sul volto ma soprattutto nell’anima che la cambierà per sempre. Perciò ha dedicato la vita alla madre, scegliendo di vivere con lei, supportata economicamente dalla sorella che ha avuto un destino meno impetuoso sposandosi con un uomo italiano di vasta cultura.
Ma a volte il destino è meschino. Durante i miei mesi a Pune, il compagno di Chetna, Anant, convive con lei in casa. Un uomo dalla dolcezza estrema, stacanovista, purtroppo affetto da una tendenza alcolica che aggrava la sua condizione di salute fisica e mentale. L’alcol rappresenta per lui, come per una larga porzione della popolazione indiana, il rifugio da una vita piena di sofferenza e difficoltà sul posto di lavoro che lo costringono in sella ad una moto tutto il giorno da una parte all’altra della città.
Una sera, Chetna riceve una chiamata di quelle che non vorresti mai ricevere. Dopo una giornata di lavoro estenuante, mentre rientrava a casa, Anant ha avuto un incidente in moto. Fortunatamente non gli è stato fatale, ma la prospettiva di giorni frenetici a venire lo porta a cambiare la propria vita di città. Si ritira dunque in un centro di meditazione in riva al Gange, a pochi chilometri da Rishikesh, nel nord dell’India. Ho avuto la fortuna di andarlo a trovare in questo luogo meraviglioso immerso nella natura, dove riesce a porre fine alle sue tentazioni. Tuttavia, il suo cuore non ha retto allo stesso modo. Pochi mesi dopo il nostro incontro, Chetna mi stringe in un abbraccio dandomi la triste notizia.
Chetna è una donna che ha deliberatamente scelto di non sposarsi: decisione alquanto controcorrente nella società indiana di qualche decennio fa. Alla morte di Anant, Chetna si sente inutile e smarrita, mi ripete che ormai è troppo vecchia, non si reputa bella per via della deformità oculare. Io la reputo la donna più bella del mondo nella sua umiltà e forza di andare avanti, nonostante tutto.
Cosa porto con me della vita in famiglia
La vita nella casa di Chetna è una vita semplice, fatta di piccole cose. Il dudh wala (uomo che consegna il latte), appuntamento immancabile ogni mattina. La madre seduta tutto il giorno alla finestra a leggere giornali ed ascoltare i discorsi di Osho ad una radio che nei nostri mercatini vintage verrebbe venduta a peso d’oro.
A volte invito Chetna a mangiare qualcosa fuori per alleviarla dal dolore e sofferenza quotidiana. Una cena indiana di pochi euro riesce ad inserire una nota di straordinarietà nella vita di Chetna. Se da una parte vivere con Chetna mi ha aiutato a tenere i piedi per terra e non perdere mai di vista quell’equilibrio sottile tra integrità e slealtà, dall’altra Chetna ha vissuto con me una ventata di novità grazie ai racconti di altri mondi ai quali purtroppo non ha avuto accesso.
Ho fatto a meno di tante comodità come un box doccia o l’aria condizionata, senza indugio. Credo di aver guadagnato una maggiore praticità nella vita e consapevolezza di me stessa e degli altri.
Vivere in una famiglia indiana mi ha insegnato che i valori da preservare e mantenere sono in fondo pochi. Come Chetna mi ha più volte ripetuto, dobbiamo far sì che non vengano compromessi da nessuno. Tuttavia, per qualche strana ragione, cerchiamo sempre di contravvenire a questa regola apparentemente facile. Conoscere uno spaccato di vita quotidiana diverso dal mio mi ha fatto riflettere sull’andare oltre le apparenze perché ciascuno di noi é il risultato di una storia di vita non sempre agiata, come ho raccontato nel mio articolo Il sogno indiano.
Il nostro mondo di sei mesi in cui abbiamo condiviso lunghe chiacchierate davanti ad una tazza di chai, pianti, sogni irrealizzati, consigli, è racchiuso nel lungo abbraccio il giorno della mia partenza. Chetna mi confessa di aver trovato in me una confidente, un’amica, quasi una sorella piccola per la quale si è preoccupata e preso cura giorno dopo giorno. Con poche parole, quelle giuste, quelle che arrivano dritte al cuore.
Sento ancora il rumore delle pale del ventilatore che rinfrescano le mie notti indiane. Sento ancora l’odore del chai al mattino. Mi assale un pizzico di nostalgia. Senza Chetna forse non avrei sopravvissuto alla Pune degli espatriati allo stesso modo. Avevo bisogno di quella semplicità per ridimensionare la facilità nel definire problemi i piccoli imprevisti. Quando qualcuno o qualcosa prova a piegarmi, le parole di Chetna sono vivide nella mia mente. Avevo bisogno di quella storia per costruire la mia consapevolezza.

Il piccolo soggiorno della casa di Chetna. Beviamo il chai insieme ad una coppia di miei amici in visita. La madre di Chetna siede tutto il giorno a quella finestra
Devo ammetterlo… mi sono emozionata… Hai scritto un articolo semplice ma profondo… e soprattutto fa riflettere…
Grazie mille Alessia! È stata un’esperienza molto importante che mi ha regalato uno spaccato di via che altrimenti non avrei conosciuto. Sono contenta di essere riuscita a trasmettere le mie sensazioni.
Bellissimo e commovente il tuo racconto. A volte non si immagina quanto dolore e quanta forza si nasconde dietro il sorriso delle donne e Chetna ne è la conferma. La sua è una storia triste ma il vostro incontro le ha dato ricchezza così come la consapevolezza della sua vita “comune” ne ha dato a te.
Proprio vero Antonella. Siamo così ciechi e volte e presi dal nostro mondo ed entusiasmo che non ci rendiamo conto di ciò che scorre accanto a noi. Basterebbe solo ascoltare un pò di piu’ gli altri e dare spazio.
Vivere in una famiglia indiana deve essere un’ottima esperienza; durante il nostro viaggio in Rajasthan abbiamo avuto il piacere di andare a pranzo a casa del nostro driver ed è stato davvero piacevole!
L’accoglienza degli indiani è disarmante. Anche quando non hanno niente, fanno di tutto pur di far sentire l’ospite un re. Posso solo immaginare l’orgoglio del vostro driver nel portarvi in casa!
Un bellissimo articolo in cui raccontando te stessa racconti anche la vita e le emozioni della famiglia che ti ha ospitato.
Sicuramente un’esperienza che resterà per tutta la vita ad entrambe.
Esperienze che cambiano la prospettiva vicendevolmente e questo è il bello di viaggiare, essere pronti ad accogliere e recepire 🙂
Un’esperienza come la tua non può che arricchire: avvicinarsi e integrarsi in culture e abitudini così diverse non è facile ma ti eleva spiritualmente. Non è da tutti e sarai in grado di affrontare la vita con una diversa apertura.
Mi rendo conto che molti valori e insegnamenti che porto dentro di me derivano proprio da quella esperienza e, come hai detto tu, mi regalano sempre una prospettiva diversa sull’affrontare tante tematiche che credo altrimenti non avrei avuto.
Come sempre bello il tuo racconto è bello ciò che hai imparato e ti porto dietro da questa esperienza
Grazie Carmen 🙂 Mi ritengo fortunata di aver potuto vivere tutte queste esperienze!