Trasferirmi in India, a Pune, mi ha dato modo di entrare in contatto con la realtà degli expat, gli espatriati. Prima di arrivare in India, immaginavo un mondo molto diverso rispetto a quello che invece ho conosciuto. Credevo ed ero ben consapevole che avrei dovuto mettere da parte la vita notturna per un bel pò, così come ogni sorta di capriccio gastronomico. Ma non ne ero dispiaciuta, anzi. Volevo andare in India anche per scrollarmi di dosso quelle “necessità” per me superflue e riempire le mie giornate di altro.
Sin dal mio arrivo a Pune, invece, mi è subito sembrato chiaro che quella vita tanto immaginata si sarebbe ben presto sgretolata. È facile essere risucchiati dalla realtà degli espatriati, soprattutto in India.
Quartieri con una buona prevalenza di occidentali, discoteche, ristoranti di ogni sorta. Il mondo degli espatriati in India è una bolla di sapone volta a ricreare una trasposizione del proprio stile di vita nel luogo di residenza temporaneo.
Un occidentale che non gradisce il cibo indiano oggi può tranquillamente vivere in una grande metropoli indiana per mesi mantenendo le proprie abitudini alimentari. Come? Grazie ai supermercati che vendono solamente prodotti importati i cui prezzi maggiorati (dovuti alle tasse di importazione) rendono un pezzo di parmigiano o un pacco di cereali veri e propri beni di lusso rispetto a quello che si spenderebbe in un negozietto alimentare indiano.
I bisogni dell’espatriato subentrano nella realtà in cui si è insediato ma non sempre i due mondi si integrano. Anzi, coesistono parallelamente, l’uno un pò meno consapevole della presenza dell’altro e, spesso e volentieri, non si incontrano mai.
Ti starai chiedendo chi è e cosa fa l’espatriato e perchè deve andare proprio in India se non si trova bene? Nei prossimi paragrafi risponderò a queste domande.
Chi è l’espatriato?
L’espatriato è letteralmente colui che lascia la propria patria per un tempo determinato per ragioni di lavoro. Un’azienda sceglie di trasferire uno o alcuni dei suoi professionisti nelle sue filiali in giro per il mondo, per impartire il proprio know-how nel Paese di espatrio. Gli espatriati sono infatti soprattutto figure manageriali. L’obiettivo è quello di colmare lacune produttive e gestionali ed allineare i processi della filiale estera il più possibile con l’azienda madre.
Lavoratori immigrati, dunque. In un certo modo è così, ma sappiamo bene quanto le accezioni morfologiche abbiano un peso nei contesti socio-politici. L’espatriato è difatti generalmente una figura riconosciuta, stimata e quasi idolatrata nel Paese di espatrio, soprattutto se consideriamo un Paese come l’India.
Gli indiani sono affascinati dalla possibilità di entrare in contatto con gli occidentali. Provano ad emulare il nostro modo di vivere, vestirsi e atteggiarsi. Per gli indiani rappresentiamo il modello del benessere e dell’essere cool tanto aspirato.
Ma a che prezzo? Esiste veramente un’interazione tra il mondo degli espatriati e i locali?
La risposta è molto delicata e potrebbe suscitare reazioni contrastanti. Ci sono due modi di vivere in India, come ho raccontato qualche giorno fa nel mio post su Instagram.
Si può scegliere di vivere in India rimanendo all’interno della propria zona di comfort. Paradossalmente, si può vivere in India senza avere a che fare con indiani o, come ho scritto all’inizio di questo articolo, senza mai assaggiare un piatto indiano. Un modo di vivere che non consente lo scambio e condivisione tra culture, anzi, crea una profonda spaccatura tra i due mondi.
Si può invece fare una scelta più consapevole e scegliere di vivere l’India. Anche da espatriato. Ci si può spingere oltre l’imposizione del proprio modo di vivere, ritenuto nettamente migliore rispetto a quello del Paese ospitante per mere ragioni geopolitiche. Ci si può immergere nella cultura del Paese ed adattarsi. Provare a vivere “come loro” nel rispetto del Paese che ti accoglie e da cui ne trai preziosi benefici professionali.
Non esiste un modo di essere espatriato giusto o sbagliato, né è l’intento dell’articolo. Ciascuno affronta la propria condizione in maniera diversa perché vede coinvolta la propria sfera comportamentale e caratteriale.
Credo però che esista almeno la linea del provarci, ancor prima di arrendersi di fronte a ciò che si ritiene indiscutibile per puro partito preso. Provarci. Questo, forse, siamo tutti in grado di farlo, ma spesso è più facile rifugiarsi nelle proprie convinzioni.
Perché gli espatriati decidono di andare in India?
Dal punto di vista lavorativo, un professionista espatria in India per migliorare la propria posizione all’interno dell’azienda. L’India, infatti, consente una crescita professionale molto più veloce rispetto ad altri Paesi. Richiede infatti un’elevata, costante e tempestiva capacità di risoluzione dei problemi (problem solving) ai quali ci si trova di fronte per la prima volta.
Poiché l’India non è una meta ambita, ed è comunque impegnativa, i benefici (benefit) per il professionista sono innumerevoli e a discrezione di ogni azienda. L’aumento dello stipendio è solo la punta dell’iceberg. Solitamente l’azienda mette a disposizione un tetto massimo per l’affitto mensile della casa (variabile in base al ruolo che si ricopre e all’azienda), un autista 24 ore su 24 e un’auto personale, il pagamento della scuola internazionale se si hanno figli a seguito. Questi solo per citarne alcuni.
Quali sono le differenze interculturali prevalenti?
Iniziando a lavorare in India, sarà facile notare alcune differenze culturali nella gestione del lavoro quotidiano che spesso rendono inefficiente la gestione del tempo e degli obiettivi, specialmente in un tessuto sociale come quello indiano. Sono proprio queste differenze a “trarre in inganno” l’espatriato e a renderlo costantemente nervoso. Finché non decide di andare oltre la propria visione ben strutturata ed approfondire i retroscena di tanti comportamenti.
Ad esempio, la gestione del tempo è una competenza ardua da individuare in India. Il più delle volte una scadenza non verrà mai rispettata non perché i dipendenti indiani siano meno capaci, bensì perché la concezione del tempo è diametralmente opposta alla nostra.
Il tempo in Occidente è infatti lineare: possiamo immaginare una linea retta che si muove unicamente verso destra dall’attimo zero ad infinito. In India, invece, la concezione del tempo è circolare, perciò non si definisce in una sequenza rettilinea di attimi composti da causa e conseguenza. Anzi, è un cerchio dove l’inizio e la fine sono spesso indistinguibili tra loro, si rincorrono per poi incontrarsi e ridare nuova vita al cerchio.
In aziende grandi sarà possibile anche trovarsi di fronte ad imprevisti relazionali legati al sistema delle caste, nonostante questo non sia un criterio di selezione del personale.
Un esempio di incomprensione culturale potrebbe essere il seguente: un mio superiore di ruolo appartiene tuttavia ad una casta inferiore rispetto alla mia, perciò non riconosco come lui possa chiedere a me di far qualcosa, quando dovrebbe essere il contrario.
Da non dimenticare l’importanza della famiglia e dei rituali religiosi che verranno sempre al primo posto rispetto al lavoro. Mi piace sempre raccontare questo aneddoto dei miei anni lavorativi a Pune. Ogni volta mi fa sorridere perché che non sarebbe in alcun modo replicabile in Italia o in Europa.
Molto spesso il mio collega indiano arrivava al lavoro in netto ritardo, intorno a mezzogiorno. Le prime volte eravamo preoccupati. Ci chiedevamo se gli fosse successo qualcosa, anche perché non ci informava preventivamente che non sarebbe arrivato in orario. Attendevamo con ansia che arrivasse in ufficio.
Non appena varcava la soglia, trafelato dalla guida in moto nello stridente traffico indiano, ci guardava e, come se fosse l’affermazione più normale del mondo, esordiva con “Sorry guys, I had breakfast with my father” (“Scusate ragazzi, ho fatto colazione con mio padre”). Io e il mio collega inglese ci scambiavamo un’occhiata incredula, che lasciava trapelare il nostro totale sbigottimento. Il collega indiano continuava a fissarci senza la necessità o il bisogno di dover delle scuse.
Ciò che lascia ancor più senza parole è che la sua colazione con il padre non era in alcun modo una scusa, anzi, era una sua priorità. Non potevamo fare altro se non scoppiare a ridere e dirci “Only in India” (“Può accadere solo in India”).
Gli esempi riportati sono testimonianze reali accadute personalmente o a conoscenti a Pune.
Qual è dunque il valore aggiunto degli espatriati in India?
Appare dunque evidente che problemi come quelli sopraelencati richiedano molto tatto e sensibilità ma anche consapevolezza del proprio ruolo. Non sono sicuramente di facile portata perché nessun manager del settore industriale immaginerebbe di dover districarsi in situazioni del genere. Il supporto degli espatriati in India va ben oltre la nozionistica competenza manageriale.
Il valore aggiunto è la conoscenza e consapevolezza dell’esistenza di due diversi piani culturali e la volontà e abilità di riuscire a creare l’interconnessione tra questi.
Non mi è mai piaciuto definirmi espatriata e difatti non mi sono mai sentita tale. Ho perlopiù lavorato in realtà internazionali ma con stipendio indiano e, come racconto qui, ho sempre cercato di inserirmi nella realtà locale, scegliendo ad esempio di vivere in una famiglia indiana.
La vita mi ha poi portato ad ottenere un ruolo manageriale a 25 anni in un’azienda tedesca a Pune con visto da espatriata: un sogno che sembrava realizzarsi. Eppure, proprio in quel momento, ho capito che la mia India non era quella fatta di benefit e capacità incontestabili dettate dall’essere europea. Non era quella artificiale della terrazza panoramica nell’hotel a 5 stelle e del sushi in un centro commerciale.
Tuttavia, ho anche capito che l’India ha ormai diversi volti e quello occidentale si fa largo sempre più tra gli spazi urbani. Il bello dell’India è anche questo.
Ti permette di scegliere la propria angolazione per osservarla. Si può anche scegliere di rimanere ciechi davanti alla realtà che ti prospetta. Ma credo che la fortuna di essere un espatriato in India risieda nell’opportunità privilegiata (questa volta il privilegio è un punto a favore) di mettere in moto un processo interculturale per far sì che la distanza anni luce tra il mondo occidentale e quello indiano venga colmata sempre di più. E l’integrazione non resti solo una bella parola scritta su un pezzo di carta.
Anzi, forse ci aiuterebbe a capire cosa vuol dire essere accolti a braccia aperte in un altro Paese dove siamo e rimaniamo ospiti.
Se hai curiosità sul mondo degli espatriati in India e vuoi scoprire cosa fa un espatriato a Pune, leggi qui.